L’uso dell’Lsd tra la popolazione adulta americana sarebbe aumentato del 56,4% tra il 2015 e il 2018. Questo il dato centrale di una recente indagine basata sui dati raccolti dall’annuale National Survey on Drug Use and Health (NSDUH) in quel triennio. Si tratta di un’analisi secondaria sulle risposte complessive, estrapolando quelle di 168.562 ultra-diciottenni che hanno dichiarato di aver ingerito la sostanza psichedelica. La fascia più attiva sembra quella dei 26-34 anni: l’uso è salito dal 19,6% al 31,1%, con un analogo aumento tra chi è in possesso di un diploma di laurea, dal 18,2% al 31,1%. Diminuisce invece la diffusione tra la fascia più giovane, 18-25 anni: meno 24%.
Il NSDUH è stato avviato nel 1971 dal National Institute on Drug Abuse e si propone di coprire l’intero territorio nazionale, raccogliendo dati aggiornati sull’uso di tabacco, alcol e sostanze illegali, oltre che sulla salute mentale e generale, di un campione pari a circa 70.000 cittadini adulti. Questi ultimi vengono scelti casualmente con criteri scientifici e intervistati in persona da professionisti, ma la partecipazione resta del tutto volontaria (se approvati, gli intervistati ricevono 30 dollari a testa). Insieme a un’altra indagine annuale finalizzata soprattutto agli adolescenti, nota come Monitoring the Future (MTF), i dati complessivi così raccolti forniscono le basi per decidere le future policy federali in materia di droga.
Si tratta insomma di rilevamenti piuttosto generici che vanno contestualizzati al meglio. Fra le varie testate che rilanciano la notizia, ci prova un articolo di Scientific American. Dove si legge fra le righe che alla fin fine meno dell’uno per cento degli adulti americani prova l’Lsd ogni anno. Né è semplice individuare i motivi del trend in crescita. Anzi, secondo Joseph Palamar, ricercatore presso il Langone Medical Center della New York University, “Oggi l’acido è assai meno popolare che negli anni 1960 e 1970”. Aggiungendo che, per esempio, sul finire dei ’70 almeno il 10% dei maturandi al liceo indicava di averlo provato almeno una volta, mentre oggi saremmo intorno al 6%, come riportato nell’ultimo MTF. E che quest’incremento andrebbe imputato alla rampante popolarità dei “dance festival” dove, pur fra sostanze d’ogni tipo in circolazione, l’acido conserva sempre un fascino superiore. Non a caso uno studio pubblicato da Palamar e altri lo scorso aprile ne segnala un +10-17% tra i partecipanti a simili eventi da New York City tra il 2016 e il 2019.
Notando che il questionario NSDUH sorvola completamente sul possibile dosaggio e sulla motivazione delle droghe assunte, il Prof. David Nutt, direttore dell’unità di neuropsicofarmacologia all’Imperial College di Londra, propone un’altra ipotesi. L’aumento sarebbe dovuto, in buona parte, alla pratica delle microdosi, ormai diffusa in molti ambienti per stimolare la creatività e motivare la concentrazione. Si tratta di circa un decimo della dose normale psicoattiva, al di sotto della soglia percepibile, quindi 10–15 microgrammi per l’Lsd. Quest’ultimo è inoltre più facilmente reperibile e trasportabile rispetto all’altro allucinogeno più popolare, la psilocibina, che quasi sempre viene sotto forma dei tipici funghetti (o truffles).
Andrew Yockey, dottorando alla Università di Cincinnati e coordinatore di quest’indagine statistica, suggerisce invece che “l’Lsd è visto come una panacea per l’ansia e altri problemi psicologici… e con il mondo oggi a soqquadro la gente vi ricorre sempre più come meccanismo terapeutico autogestito”. D’altronde qualificate fonti mediche, per far fronte al trauma mentale ed emotivo dovuto all’emergenza del coronavirus, hanno suggerito l’aiuto degli psichedelici, sulla falsariga dei positivi test clinici in corso con Mdma e psilocibina per chi è affetto da ansia, depressione, disturbo post traumatico da stress. Poco appropriata però la sua posizione secondo cui “l’Lsd viene usato soprattutto come fuga dalla realtà” (chemical escapism): consumatori, esperti e studiosi riportano sostanzialmente il contrario, a partire dallo stesso Albert Hofmann, a cui si deve la sintesi nel 1943 della dietilammide dell’acido lisergico, che ne parla specificamente nel suo libro Il mio bambino difficile.
Pur con qualche approssimazione contestuale, l’indagine ribadisce dunque il valore psicoterapeutico dell’Lsd, come già per le sostanze di cui sopra. Rimane però da superare lo stigma culturale negativo sull’onda di certi eccessi degli anni ’60, motivo che spinge la ricerca a optare su enteogeni “minori”. Un altro ostacolo è rappresentato dalle bizantine procedure per ottenere le necessarie autorizzazioni, visto che l’Lsd rimane nella lucchettata Tabella I e gli ostacoli burocratici sono talmente complessi che alla fine i ricercatori preferiscono occuparsi d’altro. Lo conferma il prof. Nutt, secondo cui fare ricerca con l’Lsd è “virtualmente impossibile”.
Un quadro che porta l’intero settore, compreso lo stesso Yockey, a insistere per la depoliticizzazione dell’Lsd, onde aprirne le porte a studi di ampio respiro sulle potentizialità terapeutiche e sugli effetti dell’uso ricreativo. In tal modo, conclude il ricercatore, potremmo concentrarci su un punto forse ancora più importante: “ridurre l’uso di sostanze più pericolose e diffuse come metamfetamine, cocaina e fentanyl che, diversamente dall’Lsd, possono uccidere”.
Questo articolo fa parte della rubrica settimanale Psichedelia Oggi.
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Bernardo Parrella è giornalista freelance, traduttore e attivista, da tempo residente in Usa e coinvolto in svariati progetti italiani e internazionali. Ha curato l’ebook Rinascimento Psichedelico. La riscoperta degli allucinogeni dalle neuroscienze alla Silicon Valley“ (2018). @berny