La terapia psichedelica è un pacchetto di cura comprensivo a livello psicologico. Non possiamo più ignorarne le potenzialità per trattare la depressione e altri disturbi mentali. Questo il succo di un recente editoriale firmato sul Guardian da Robin Carhart-Harris, responsabile del Centre for Psychedelic Research dell’Imperial College di Londra. Un quadro che trova ennesima conferma da una ricerca olandese sulla neurobiologia di soggetti che avevano assunto psilocibina e dai risultati della Fase 2 della procedura avviata da Maps per l’uso dell’Mdma nel trattamento del disturbo post traumatico da stress (Dpts).
Il mese scorso i ricercatori dell’Università di Maastricht hanno analizzato le funzioni cerebrali quando si prova il temporaneo annullamento del senso del sé tipico dell’esperienza psichedelica. Pubblicato sulla rivista specializzata Neuropsychopharmacology, il primo studio di questo tipo rivela che questa perdita del senso del sé è strettamente correlata con un neurotrasmettitore cerebrale legato all’autocoscienza.
Il test controllato, con placebo e a doppio cieco, ha interessato 60 volontari sani che avevano assunto una dose ridotta, 17 milligrammi, di psilocibina sintetica (normalmente si parla di 25 milligrammi). “Dose non sufficiente per indurre la totale dissoluzione dell’ego, o la perdita completa del senso del sé”, precisano i ricercatori. La cui attenzione si è concentrata sul glutammato, uno dei più importanti neurotrasmettitori cerebrali e combustibile dell’80% delle nostre connessioni sinaptiche, presente in due aree del cervello legate al senso del sé. Studiati anche i mutamenti nell’ippocampo, direttamente responsabile per l’autostima e la memoria autobiografica.
Lo studio ha confermato che, come per altri allucinogeni, la psilocibina comporta l’incremento della “plasticità” del cervello, portando così all’accelerazione nei processi di cambiamento psicologico. L’esperienza positiva della dissoluzione dell’ego sembra direttamente dipendente dal livello di glutammato presente nell’ippocampo, aprendo il campo a ulteriori applicazioni mirate per la terapia psichedelica nel campo della psichiatria.
Intanto negli Stati Uniti sono stati resi noti i risultati della Fase 2 della psicoterapia coadiuvata dall’Mdma per il trattamento del disturbo post traumatico da stress (Dpts). Ciò fa parte della costosa e lunga procedura avviata nel 1996 dalla Maps (Multidisciplinary Association for Psychedelic Studies) con l’obiettivo di consentire ai medici statunitensi di prescrivere legalmente “l’antibiotico della psichiatria” entro il 2021. Attualmente ne è in corso la terza e ultima fase, e questi dati confermano le promesse terapeutiche dell’intero processo – confermando innanzitutto innocuità, sicurezza ed efficacia dell’enteogeno. In realtà, esiste anche un’eventuale fase 4, nel caso la Fda richieda ulteriori informazioni su durata degli effetti positivi, possibili ricadute, prevedibilità su chi risponde o meno al trattamento – ma nel caso se ne parlerà più avanti.
Si trattava di sei test clinici controllati, randomizzati e a doppio cieco condotti dal 2004 al 2017. Per la quasi totalità dei volontari (91 su 100) i benefici concreti sono durati almeno per 12 mesi dopo l’ultima sessione. L’effetto collaterale più comune ha riguardato meno del 4% dei partecipanti, definito come “un po’ di cattivo umore” . E fino a due mesi dopo l’ultima sessione, il 56% non rispondeva più ai criteri diagnostici per il Dtps.
Dati incoraggianti anche rispetto al previsto incremento dei casi di trauma mentale ed emotivo dovuto all’emergenza del coronavirus, con l’aggravante che gli effetti di questi traumi psicologici potrebbero evidenziarsi, o emergere sotto forme inattese, per molti mesi e finanche anni a venire. Come già sottolineato da diverse fonti mediche e ora confermato dal Dr. Berra Yazar-Klosinski, coordinatore di questo studio sull’esito della Fase 2. “Il trauma va evidenziandosi a livello globale per via della pandemia e questi dati confermano l’efficacia di terapie innovative di cui il mondo oggi ha urgente bisogno”, ha spiegato il ricercatore della Maps.
Unico neo della procedura, comunque estraneo all’ambito terapeutico, rimane la scarsa diversità razziale dei volontari, elemento tutt’altro che ignoto agli stessi operatori: quasi il 90% dei partecipanti erano bianchi di origine caucasica. Scenario che d’altronde riflette la “tipica composizione dell’intera disciplina (e della stessa clientela) psichiatrica in America”, ha aggiunto Yazar-Klosinski. A parziale motivazione, i promotori non avevano fondi per alcun tipo di assistenza economica ai partecipanti, che quindi non potevano permettersi di assentarsi dal lavoro. Problema superato nell’attuale Fase 3, con appositi stanziamenti già erogati per includere così nei test clinici anche pazienti di ambiti socio-razziali meno abbienti.
Senza infine dimenticare che un recente rapporto delle Nazioni Unite sulla salute mentale degli operatori sanitari rispetto alla fase post-covid ha lanciato l’allarme sulla questione, rimarcando la necessità di un supporto psicologico di nuovo tipo – ambito in cui gli allucinogeni possono certamente essere d’aiuto.
(Foto: Zamnesia Blog)
Questo articolo fa parte della rubrica settimanale Psichedelia Oggi.
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Bernardo Parrella è giornalista freelance, traduttore e attivista, da tempo residente in Usa e coinvolto in svariati progetti italiani e internazionali. Ha curato l’ebook Rinascimento Psichedelico. La riscoperta degli allucinogeni dalle neuroscienze alla Silicon Valley“ (2018). @berny