Cannabis, il futuro è l’Africa

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Come un po’ tutto il mondo, anche il continente africano si interroga sul se e come legalizzare il consumo, il trasporto ma soprattutto la produzione e la commercializzazione della cannabis. Una prospettiva che fino a un decennio fa era inimmaginabile ma che oggi potrebbe aprire a nuove prospettive economiche. Un potenziale interessante per le economie africane, soprattutto alla luce della crisi provocata dalla pandemia, che ha drammaticamente frenato la crescita economica che ha caratterizzato il continente africano negli ultimi anni.

Le leggi che regolamentano, e perlopiù proibiscono, produzione, vendita e consumo di cannabis nelle varie nazioni africane sono tutte o quasi di diretta derivazione coloniale e negli anni hanno prodotto clandestinità, carcerati, povertà. Ma le condizioni, oggi, stanno rapidamente cambiando, anche se per fattori esterni al continente: la legalizzazione della cannabis e dei suoi svariati usi in diversi mercati occidentali apre nuove prospettive economiche per l’Africa, ancora con una forte vocazione agricola, dove almeno 10 Paesi stanno modificando il quadro giuridico che regolamenta tali prodotti. L’opportunismo dell’Africa viaggia su un doppio binario: da un lato imprenditori e governi che colgono un’occasione unica per aggredire un mercato multimiliardario, dall’altro il perpetrarsi di una logica proibizionista spesso di diretta derivazione di una classe dirigente anziana, poco rappresentativa di un continente in cui l’età media è 19 anni.

Interessante è osservare anche i diversi approcci alla questione. In meno di un anno dalla legalizzazione della produzione di cannabis medica destinata all’esportazione il Lesotho, piccolo stato dell’Africa australe che per primo nel 2017 ha legalizzato la produzione di cannabis, ha risolto una parte dei propri problemi economici siglando accordi con il Canada, dove l’industria della cannabis medica è all’avanguardia e ben strutturata ma dove mancano i terreni ed il clima giusto per produrla a costi contenuti. Quella stessa cannabis che l’industria farmaceutica canadese acquista a poche migliaia di dollari alla tonnellata viene rivenduta come farmaco, anche in Europa, a circa 15-20 dollari al grammo. Ad aprile la MG Health, un’azienda di Maseru in Lesotho, che produce estratti e prodotti farmaceutici a base di cannabis è diventata la prima azienda di cannabis con sede in Africa a ottenere l’ambita certificazione EU Good Manufacturing Practices (GMP): ciò significa che può fare affari direttamente nel mercato dell’UE. Diverso l’approccio dello Zimbabwe, dove il governo preferisce fare cassa più che sulle esportazioni sulle licenze necessarie alla produzione, che costano 50.000 dollari l’una.

Secondo Prohibition Partners, una società di ricerca e consulenza specializzata nel settore della cannabis legale, il mercato della cannabis africano potrebbe valere più di 7 miliardi di dollari l’anno entro il 2023, una proiezione che si concentra sui mercati legali di Sudafrica, Zimbabwe, Lesotho, Nigeria, Marocco, Malawi, Ghana, eSwatini e Zambia. In Africa tuttavia ci sono ben 55 nazioni, alcune delle quali si stanno aggregando al “cannabis club” africano, come il Ruanda, l’Etiopia, la Repubblica Democratica del Congo, l’Uganda e la Nigeria. Il Marocco, che ha aperto al mercato legale della cannabis (medico, cosmetico e industriale) da circa un mese, era già il primo esportatore di cannabis al mondo, una fiorente industria illegale da 13 miliardi di dollari e circa 1 milione di lavoratori. Una grossa fetta di Pil marocchino.

I vantaggi della legalizzazione e dalla regolamentazione della cannabis in Africa sono molteplici: migliorando la regolamentazione e gli ambienti legali i Paesi africani contano sugli investimenti esteri privati e sulla tecnologia per far funzionare al meglio le loro terre coltivabili, aumentandone la produttività, con una manodopera relativamente a buon mercato che aiuta a mantenere bassi i costi di produzione. Inoltre creare industrie per elaborare ed esportare prodotti a base di cannabis, o esportare prodotti grezzi, permette agli stati di guadagnare dalla concessione di licenze locali e dalla tassazione del settore. I Paesi lungo la fascia equatoriale del continente hanno oggi l’opportunità di contribuire alle innovazioni della cannabis, non solo in medicina ma anche in altri settori come la produzione di carta, i mattoni ecologici e le bio-plastiche.

Il proibizionismo morale è tuttavia ancora molto forte, soprattutto in certi ambienti: la first-lady dell’Uganda Janet Museveni, che spesso parla in nome e per conto del marito Joveri, ha definito la cannabis un “prodotto satanico” e da sempre si oppone a qualsivoglia regolamentazione. Lo stesso vale in Kenya, dove la politica sostiene la tesi della percezione pubblica negativa della cannabis per rafforzare le proprie posizioni proibizioniste. Nonostante questo però la cannabis resiste, sempre nel mercato nero: lo dimostra ad esempio una dichiarazione del ministero della Salute ugandese di qualche tempo fa, in cui si mette in guardia il pubblico dall’uso di cannabis per curarsi dal covid.

Il braccio di ferro ha un premio importante: Sudhir Ruparelia, il più ricco uomo d’affari dell’Uganda, ha scritto un anno fa al presidente Museveni descrivendogli le opportunità economiche che derivano da un cambio di approccio, mettendo a disposizione della futura industria nel Paese soldi, competenze e strutture. Per gran parte del continente tali prospettive sono ancora solo ipotesi remote ma le tendenze indicano chiaramente come il tema non sia più un tabù per l’Africa, che seguendo questo “nuovo” mercato legale globale può liberarsi definitivamente di alcune leggi morali di diretta derivazione coloniale.

Foto | Unsplash


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