L’irrilevanza dell’Onu quando si parla di droghe

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Articolo di Marco Perduca, Coordinatore della campagna “Legalizziamo”, per The Huffington Post

Dal 19 al 21 aprile si terrà al Palazzo di Vetro la terza sessione speciale dell’Assemblea generale dedicata al tema delle droghe, UNGASS. Le prime due furono nel 1990 e 1998 ma la storia del proibizionismo viene da molto più lontano.

Nel 1961, mentre il mondo assisteva ammirato, o preoccupato, al primo uomo nello spazio, il sovietico Yuri Alekseyevich Gagarin, prendeva parte da lontano al tentativo di sbarco americano sulla Baia dei Porci a Cuba o al processo Eichmann a Gerusalemme – e mentre gli europei vedevano finire il Piano Marshall – al Palazzo di Vetro gli stati membri delle Nazioni unite si riunivano per adottare la Convenzione unica sulle sostanze stupefacenti e psicotrope.

Non era la prima volta che le potenze mondiali, quelle che dirigono i lavori della cosiddetta Comunità internazionale, si ritrovavano per mettere nero su bianco le loro preoccupazioni relative alle droghe. Mezzo secolo prima la riunione di New York, un simile incontro ai vertici convocato nella capitale olandese aveva adottato laConvenzione dell’Aia, il primo trattato internazionale di controllo dei traffici di droga. Il documento, firmato da Germania, Stati Uniti, Cina, Francia, Regno Unito, Italia, Giappone, Paesi Bassi, Persia, Portogallo, Russia e Siam stabiliva che gli stati firmatari dovessero “compiere i loro migliori sforzi per controllare, o per incitare al controllo di tutte le persone che fabbrichino, importino, vendano, distribuiscano e esportino morfina, cocaina, e loro derivati, così come i rispettivi locali dove queste persone esercitino tale industria o commercio”.

All’indomani della Grande Guerra, la Convenzione dell’Aia ottenne validità mondiale attraverso la sua essendo incorporata nel trattato di pace di Versailles. Anni prima che Einstein sviluppasse la sua teoria della relatività, la “comunità internazionale”, senza alcuna motivazione medico-scientifica, lanciava un auspicio che per oltre 100 anni verrà ripetuto dalle Nazioni unite e dalle cancellerie dei paesi che col passare del tempo avrebbero ratificato le altre due convenzioni delle Nazioni unite nel 1971 e 1988.

Per quanto nei tre documenti dell’Onu non si proibiscano la produzione, il consumo o il commercio delle piante e dei loro derivati inserite nelle tabelle, l’interpretazione prevalente degli Stati Membri delle Nazioni unite è sempre stata quella di affidare al diritto penale il controllo delle coltivazioni, il contrasto all’uso personale e l’interdizione dei traffici dal sud al nord del mondo.

Per oltre mezzo secolo le tre Convenzioni hanno ispirato leggi e politiche per “controllare le droghe” senza prevedere sanzioni per chi non le rispetta né un meccanismo che, in corso d’opera, potesse rivederle in caso di inefficacia. Malgrado non passi anno in cui il Rapporto mondiale sulle droghe prodotto dall’Ufficio delle Nazioni unite per la droga e il crimine non certifichi il l’aumento della penetrazione degli stupefacenti dappertutto, non si vede all’orizzonte la minima critica dell’impianto delle tre convenzioni o l’avvio di un processo di valutazione dei risultati ottenuti.

Quella del 2016 sarà una UNGASS di tre giorni dove la dichiarazione finale verrà adottata dopo un paio d’ore di dibattito tutto può essere tranne che un’occasione per prendere decisioni importanti, ponderate e condivise. Le 24 pagine del documento conclusivo, peraltro già disponibili sui siti dell’Onu da un paio di settimane, presentano un catalogo di quanto dovrebbe esser fatto per un mondo libero dall’abuso di stupefacenti senza avanzare il minimo dubbio relativamente all’impianto delle tre Convenzioni.

Negli ultimi anni, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, UNAIDS e l’Alto Commissario per i diritti umani hanno elaborato una serie di raccomandazioni per limitare gli impatti negativi delle politiche di “controllo” internazionale delle droghe e echi si ritrovano nella dichiarazione finale che verrà adottata a New York, ma la ricerca del consenso ha fatto annacquare un documento nato già debole. Certo si invoca una “flessibilità interpretativa” ma dopo 50 anni di fallimenti le risposte non possono che esser strutturali e radicali.

L’unica nota positiva nell’inutilità di questa tre giorni è che molti nodi di metodo e merito son ormai venuti al pettine e che un’altra riunione è prevista per il 2019. C’è da sperare che tra le varie vuote ripetizioni si possa ascoltare anche qualche seria dichiarazione d’intenti che possano esser tradotte in riforme a livello nazionale.


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