di Roberto Spagnoli
“Non abbiamo motivi di specifica stima per chi fuma hashish. Riteniamo anzi vi siano orizzonti sufficientemente vasti, fisici e morali, da esplorare e percorrere, per non avere bisogno di evasioni o altri “viaggi”. Ma le attuali persecuzioni conducono al rischio di un “flagello”; decine di migliaia di ragazzi criminalizzati, traumatizzati, segnati per tutta la vita dall’unica, cieca e ottusa violenza di tutto questo “affare”: quella delle istituzioni, del partito di regime. Occorre difendersi. Attaccare. Per mio conto, non ho mai avuto occasione di fumare hashish, né intenzione, né necessità di farlo. Ma dichiaro sin da ora che intendo fumare hashish pubblicamente, preavvertendone le forze dell’ordine, in una pubblica azione disobbedienza civile”.
Queste parole di Marco Pannella risalgono al 1973: 43 anni fa. La legge sulle droghe allora in vigore era stata concepita nel 1954 per reprimere il traffico di cui l’Italia era uno dei principali nodi internazionali. A causa di quella legge, nei primi anni ’70 migliaia di ragazzi finivano in carcere, la maggior parte per detenzione di modeste quantità di hashish e marijuana. Molti di loro non avevano mai avuto esperienze con le droghe. Le cifre del fenomeno avevano intanto acquistato dimensioni preoccupanti.
La disobbedienza civile preannunciata avvenne effettivamente nel luglio del 1975 nel corso di una conferenza stampa alla sede del Partito radicale nella quale Pannella fumò uno spinello e venne per questo arrestato e rinchiuso in carcere. La sua azione portò all’approvazione della nuova legge che, pur mantenendo un’impostazione proibizionista, prendeva però atto dell’esistenza di un problema sociale e sanitario e introduceva una sostanziale depenalizzazione del consumo personale.
Quindici anni dopo, però, nel 1990, entrò in vigore la legge Jervolino-Vassalli, traduzione nostrana della “guerra alle droghe” di marca statunitense. Nonostante il referendum voluto da Pannella che nel 1993 aveva abrogato le parti più repressive della normativa, la svolta repressiva imposta da Bettino Craxi aveva portato ad una nuova caccia ai consumatori, soprattutto di cannabis. Nell’estate del 1995, dopo una serie di operazioni di polizia sulla riviera romagnola, Marco decise che la misura era colma e occorreva tornare all’azione. Esattamente vent’anni dopo quella del ’75, fu quindi organizzata una nuova disobbedienza civile che ebbe luogo il 27 agosto a Roma, al mercato di Porta Portese.
Prima di essere arrestato, Pannella lesse una “dichiarazione solenne” in cui denunciava di dover divenire “come coloro che sono costretti a delinquere, a soffrire, a morire, perché lo scandalo di leggi e di giustizie ingiuste venga superato e venga corretto l’errore politico e tolto alla criminalità l’immenso potere che le si conferisce. I nonviolenti, i liberali, i democratici sono inermi e soli, con la loro cultura. Il potere ha i suoi senatori a vita, noi abbiamo i nostri giovani condannati a morte, e con essi il diritto, la ragionevolezza, il paese”. Per questo, dichiarò Pannella, “noi siamo pronti ad andare in galera, ad essere condannati dal potere e dalla stessa gente ingannata; oggi o domani”.
Qualche anno fa, in una delle sue conversazioni settimanali a Radio Radicale, Pannella ribadì il concetto espresso nel 1973: “Io non rivendico il diritto di assumere. Io dico che dinanzi alla facoltà patente [che la persona ha di assumere], devo riuscire ad inserire nella consapevolezza, ma anche nelle leggi e nel costume, il senso della non necessità di quello e semmai della necessità di altro”. Bisogna quindi “consentire una facoltà insopprimibile, se no diventa mercato nero di tutto”. Altrimenti, disse Pannella “se tu vuoi vietare l’esercizio di una facoltà umana praticata a livello di massa, tu fallirai e sarai costretto all’illusione autoritaria del potere che colpisce il ‘colpevole’ e lo colpisce a morte”.
E’ questa l’essenza dell’antiproibizionismo di Marco Pannella, dell’antiproibizionismo radicale: non è il banale “vietato vietare”, ma libertà come assunzione di responsabilità. Legalizzazione, non liberalizzazione.
La prima iniziativa antiproibizionista dei radicali risale al 1965: all’inaugurazione dell’anno giudiziario, essi denunciarono per la prima volta l’incapacità delle leggi proibizioniste di contrastare il consumo di droghe. Era la prima volta che un partito politico prendeva questa posizione e poneva politicamente il problema.
Cinquant’anni dopo, la recente Sessione speciale dell’Assemblea generale dell’Onu, ha sancito, anche se non formalmente, che la “guerra alle droghe” è finita, che nel mondo è in atto un movimento di riforma, frutto della mobilitazione dei cittadini, ma anche dell’iniziativa dei governi. Anche in Italia, varie proposte di legge di segno antiproibizionista sono all’esame del parlamento. Ci vorrà del tempo, ma il cambiamento è in atto.
Quando, pochi giorni prima di lasciarci, Pannella ha detto di tenere duro e andare avanti perché storicamente abbiamo vinto, credo che intendesse questo. Non che abbiamo “già” vinto, ma che “storicamente” abbiamo vinto. Ci vorrà del tempo, ma il punto di arrivo sarà quello. E lo dobbiamo a persone come Marco.