La storia (della medicina, dei media e della politica) ci ricorda sempre che “gli esperti” (rigorosamente anonimi) sono sempre stati pronti a mettere in guardia i consumatori, o i potenziali consumatori, sui rischi relativi alla tenuta della salute mentale di chi sceglie di auto-curarsi con gli psichedelici e, più in generale, con le sostanze psicotrope. Questo non significa tuttavia che gli usi terapeutici di sostanze come la cannabis, ma anche di sostanze meno accettate socialmente come MDMA, DMT e psilocibina, siano oggetto da anni di importanti studi clinici. Con risultati incoraggianti, anzi talmente tanto incoraggianti dall’avere l’ardire di cambiare ogni paradigma di approccio della psichiatria.
Altri esperti, in questo caso mai anonimi, ci dicono invece altro. Intervistato dal Guardian, Martin Williams, direttore esecutivo di Psychedelic Research in Science & Medicine presso la Monash University in Australia, afferma che l’approccio agli psichedelici è cambiato: la sua sperimentazione clinica sulla psicoterapia assistita da psilocibina nel trattamento di ansia e depressione nei malati terminali, svolta all’ospedale St. Vincent di Melbourne, sembra che possa portare a importanti novità in materia di psichedelici ad uso medico. Lo studio non è ancora concluso, andrà avanti ancora fino almeno al 2023, e vede coinvolti 40 pazienti terminali affetti da diverse patologie e che nell’ambito della sperimentazione assumono una o due dosi da 25 milligrammi di psilocibina, oltre ai farmaci previsti dalla terapia. E funzionano: “Gli psichedelici sembrano rappresentare un miglioramento significativo rispetto alle terapie standard”. Questo significa che tali pazienti ne hanno provato beneficio e “l’hanno classificata tra le esperienze più significative, dal punto di vista personale e spirituale, della loro vita”.
Non male per un malato terminale.
La ricerca di Williams è solo l’ultima di una lunga serie. In particolare, nel trattamento dell’ansia e della depressione di fine vita le evidenze scientifiche mostrano chiaramente che i trattamenti farmacologici standard con antidepressivi inibitori non sono efficaci quanto gli psichedelici. Altri studi stanno indagando sugli effetti della psilocibina nella cura della dipendenza da metanfetamina.
Secondo Jerome Sarris, uno dei direttori del nuovo Psychae Institute di Melbourne, gli psichedelici hanno il potenziale per avviare un “cambio di paradigma” nella psichiatria tradizionale: le droghe psichedeliche infatti sembrano consentire diverse interconnessioni nel cervello, come il “cross-talk”, determinando un alterato senso di prospettiva e una maggiore flessibilità psicologica. Questo, in soggetti affetti da ansia o depressione (e quindi afflitti da un’eccessiva rigidità nella formulazione del proprio senso di sé), aiuta molto a smorzare la modalità predefinita, e rigida appunto, della nostra rete neurale.
Sarris condurrà, dal 2022, uno dei pochi studi al mondo sull’uso dell’ayahuasca per curare la depressione e l’alcolismo: già un altro studio, in Brasile, ha mostrato risultati incoraggianti. In generale nel 70-78% dei casi i pazienti hanno riportato un miglioramento dei sintomi: occorre ora capire bene il perché.
Ma tali sostanze con nomi quasi onirici non sono le uniche in grado di cambiare il paradigma della psichiatria: l’MDMA, la sostanza illegale più assunta, dopo la cocaina, nelle discoteche di tutto il mondo, ha mostrato risultati promettenti per il trattamento di disturbo da stress post-traumatico, ovviamente se combinato con una terapia adeguata. Negli Stati Uniti siamo già ad uno studio in Fase III (superato il quale l’uso farmacologico potrà essere approvato dall’FDA), che rivela come “altamente efficace” l’uso di MDMA nel trattamento di questo disturbo (tipico dei militari rientrati dal fronte, ma anche di chi è vittima di una catastrofe naturale come un terremoto o un’alluvione). Il meccanismo d’azione dell’MDMA differisce tuttavia dagli psichedelici, aumentando anche la serotonina nel cervello, il che consente di attivare parti della corteccia prefrontale associate al linguaggio: “Questo potrebbe essere il motivo per cui le persone sono in grado di parlare di esperienze” di cui non hanno mai parlato prima, ha spiegato al Guardian Stephen Bright, psicologo e docente presso la Edith Cowan University australiana.
Come al solito, la questione è tutta nella possibilità di studiare le sostanze e approvarne scientificamente l’uso per gli scopi più vari: un’indagine globale sui farmaci del 2020 ha rilevato che su 1376 persone che usano sostanze psichedeliche per l’autotrattamento, il 4,2% ha bisogno di cercare cure mediche di emergenza. L’interesse pubblico per gli psichedelici è in crescita ma a fronte di un numero limitato di studi clinici, che comunque mostrano risultati che dovrebbero incoraggiare i legislatori e gli enti regolatori a approcciare diversamente la questione.
Via | The Guardian
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