La canapa vince, un dilemma per Donald Trump

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Marco Perduca scrive sulle vittorie dei referendum sulla cannabis nell’america di Donald Trump per la rubrica di Fuoriluogo su il Manifesto del 16 novembre 2016.

Se il sentimento anti-establishment che ha portato Donald Trump alla Casa Bianca resta ancora tutto da dimostrare, e ancora di più la sua risposta politica alla rabbia anti Wall Street che lo ha sostenuto, l’8 novembre scorso per il regime proibizionista, almeno quello che negli USA riguarda la cannabis, è arrivata una sonora sconfitta.

La stragrande maggioranza degli oltre 82 milioni di cittadini che hanno avuto la possibilità di promuovere la regolamentazione legale della marijuana si è infatti schierata per un cambiamento radicale. La legalizzazione della cannabis per fini medici ha vinto in Arkansas con il 52,18%, in Florida con il 71,25%  (per le iniziative dei cittadini il quorum è del 60%), in Montana con il 55,76% e in North Dakota con il 63,66%. La marijuana sarà invece legale per qualsiasi tipo di uso in California dove ha vinto con il 55,75%, in Massachusetts con il 53,36%, in Nevada con il 54,21% e in Maine con il 51%. Solo in Arizona la proposta è stata bocciata con il 47,82%.

Dal 2017 quindi, dall’Alaska alla California, tutta la West Coast degli Usa avrà legalizzato la cannabis per qualsiasi fine, mentre si consolida la possibilità della prescrizione medica della pianta in più della metà degli stati degli Usa. Se si tiene in considerazione l’annuncio del Canada di essere pronto a legalizzare totalmente dal marzo dell’anno prossimo e della tendenza alla depenalizzazione per uso personale del Messico, nei prossimi due anni quasi 200 milioni di persone sulla costa pacifica americana potranno consumare cannabis e i suoi derivati senza incorrere in sanzioni di alcun tipo. I fiumi di turisti che ogni anno visitano San Francisco, Los Angeles e Las Vegas potrebbero portare il numero dei consumatori legali a cifre significativamente superiori!

Il voto per la legalizzazione negli USA cozza frontalmente con l’elezione di Donald Trump, (che in quegli Stati comunque non ha vinto) ed è anche in controtendenza con la vittoria schiacciante dei repubblicani alla Camera e al Senato.

Trump non è un politico di professione, ha uno “stile di vita” che si potrebbe ritenere “libertario”, in passato si è espresso a favore della marijuana medica e non ha mai preso una posizione chiara sul resto. Da “buon” repubblicano ritiene che il governo federale non debba immischiarsi nelle scelte degli stati, ma da “neo” affiliato a quel partito, per non alienarsi il Congresso, dovrà ricorrere a politici e amministratori, come Rudi Giuliani e Chris Christie, noti per la loro predilezione verso politiche di “legge e ordine” e che nel loro “conservatorismo compassionevole” hanno sempre preferito il pugno di ferro all’approccio socio-sanitario. Il vice Mike Pence è invece un noto reazionario da sempre totalmente contrario anche all’uso terapeutico della marijuana. Trump presto annuncerà i primi nomi del suo esecutivo, l‘attorney general sarà centrale su questa questione sia per quanto riguarda la regolamentazione sia per le priorità di politica giudiziaria e penitenziaria per i prossimi quattro anni.

Nessuno pensa, né forse ha mai pensato, che il governo federale degli Stati uniti fosse pronto a cambiare atteggiamento sulla proibizione, è molto probabile che già in primavera si aprano contenziosi, più politici che legali, contro la legalizzazione, ma il fatto che otto stati USA consentano la produzione, il consumo e il commercio legale della marijuana lascia ben sperare e conferma che i cittadini, quando sono posti di fronte a scelte che li riguardano, nella stragrande maggioranza dei casi scelgono pragmaticamente e con buon senso.


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